MTM. La storia dei “barchini” esplosivi, dalla rivista IL QUADRIFOGLIO - Prima parte
Della 6C 2500 si sa molto: dal punto di vista tecnico, da quello sportivo, ma molto si è detto anche a proposito delle sue carrozzerie. Volendo invece, esplorare l’argomento dal punto di vista storico, la prima informazione ad emergere è senza dubbio il ruolo fondamentale che ha avuto per l’Alfa Romeo: è stato il modello che ha traghettato il Marchio attraverso la Seconda guerra mondiale.
L’ultimo ad essere prodotto prima dello scoppio del conflitto ed anche il primo che, faticosamente, ha rivisto la luce nel 1946 quando al Portello, fra macerie e molte incertezze si raccoglievano i frantumi per costruire l’Alfa Romeo del futuro. In realtà il passaggio sarebbe stato ben più significativo e la 6C 2500 avrebbe rappresentato presto il punto di rottura di un mondo, di un modo di concepire l’automobile europea che di lì a poco non sarebbe esistita più, schiacciata da quella produzione di massa, più economica e razionale che nello spazio di una notte avrebbe spazzato via il mondo dei carrozzieri, degli chassis, delle vetture fatte a mano, quasi sempre diverse l’una dall’altra.
Un’analisi corretta quella del “prima” e del “dopo” che però trascura il “durante”. Se da un punto di vista squisitamente automobilistico, gli anni del conflitto possono quasi essere considerati un periodo sabbatico – fatto salvo il mercato militare e l’effimero progetto della Coloniale – tutta l’attenzione dell’azienda é puntata sulla produzione più interessante per una nazione in guerra: mezzi pesanti e – soprattutto – motori aeronautici. È tuttavia in questa atmosfera che la “nostra” 6C 2500 trova il modo di ritagliarsi il suo piccolo angolo di celebrità che in un periodo di guerra non passa dalle piste o dalle passerelle dei concorsi di eleganza, ma dal mare.
L’idea era quella di costruire un piccolo e potente motoscafo capace di avvicinarsi moltissimo alle imbarcazioni nemiche, per colpirle con azioni rapide e decise, e per ottenere questo risultato non verranno lesinati gli sforzi. La base di partenza è un elegante motoscafo da turismo dei cantieri Baglietto, ed i propulsori sono quanto di meglio disponibile sul mercato: quegli Alfa Romeo 6C 2500 a doppio albero a camme in testa che equipaggiavano sportivissime spider corsa ed eleganti berlinette. Il moto, era quindi, trasmesso all’elica da una raffinata ed innovativa trasmissione appo-sitamente ideata dalla Isotta Fraschini. L’idea alla base di quelli che saranno gli MTM (Motoscafo Turismo Modificato), risale invero alla fine del 1935, quando Amedeo di Savoia-Aosta, il “Duca di ferro” lancia una proposta, subito raccolta dal fratello, l’Ammiraglio Aimone che si affretta a pianificare un assalto-tipo già l’anno successivo, unendo gli sforzi di Marina e Aeronautica. Operazione, quest’ultima, non del tutto indolore, come testimonia una lettera inviata dal Generale Giuseppe Valle, Capo di Stato Maggiore della Regia Aereonautica, indirizzata al Generale Amedeo Duca d’Aosta: “…visto che anche noi potremmo costruire come la Marina queste imbarcazioni d’assalto e che comunque dovremmo rischiare i nostri uomini e gli aerei per portare a termine le missioni, tanto vale che questo tipo di attacco si possa affidare a uomini dell’Aeronautica debitamente preparati, senza complicare le cose con la chiamata in causa della Marina e con la conseguente coda di piani, comunicazioni, coordinamenti, allenamenti e intese tra le entità distinte delle due nostre Forze Armate”.
Evidentemente i problemi si risolveranno velocemente tanto che nel 1936 viene pubblicato un primo “brogliaccio” del progetto di attacco a forze navali in porto con impiego di motoscafi d’assalto:
“Sei piccoli motoscafi monoposto leggeri e veloci (vel. max 40 Miglia circa all’ora) forniti di una carica esplosiva di tritolo di kg. 300 (testa di siluro) vengono sospesi a sei idrovolanti S. 55 (atlantici) sistemandoli tra gli scafi centrali. Una notte di calma, i sei idrovolanti trasportano i motoscafi nei pressi della base navale da attaccare, ammarando ad una distanza tale dalla costa di qualche decina di miglia, da escludere la possibilità di un preventivo allarme da parte della vigilanza nemica.
Messi a mare, sganciandoli dagli aerei, i sei motoscafi si dirigono verso la base nemica. Raggiunta l’imboccatura del porto, il capofila dirige a tutta forza contro l’ostruzione. A 50-100 metri da essa, il timoniere si butta in mare lasciando proseguire il motoscafo che esploderà all’urto contro l’ostruzione distruggendola localmente. I motoscafi seguenti, passano attraverso il varco così apertosi nell’ostruzione la cui ubicazione sarà resa manifesta da un segnale luminoso lasciato in mare dal primo motoscafo insieme col timoniere. In caso esistesse una seconda ostruzione, il secondo motoscafo ripete l’operazione distruttiva già fatta dal capofila sulla prima ostruzione. I motoscafi superstiti penetrati nel porto dirigono per investire le navi alla fonda. A 50-100 metri dal proprio bersaglio ogni timoniere si getta a mare, mentre il motoscafo prosegue, esplodendo all’urto contro la nave. Nulla vieta che l’operazione sia eseguita con un maggior numero di motoscafi (nove-dodici) ed anche ripetuta a breve intervallo non essendo facile predisporre in pochi giorni una difesa proibitiva”.
Una volta definita le teoria, il testimone passa quindi alla Baglietto di Varazze, costruttrice degli scafi, ed alla milanese CABI Cattaneo, la quale si occuperà dell’allestimento delle imbarcazioni, collaudate all’idroscalo, luogo ben più riservato del litorale ligure.
“Purtroppo non abbiamo più nell’archivio dei cantieri disegni e documenti riguardanti i mezzi d’assalto da noi costruiti perché dovemmo consegnarli all’Ufficio Tecnico della Marina Militare il 10 marzo del 1947 – dichiara Vincenzo V. Baglietto - posso comunque tentare di ricostruire, per quanto mi ricordo, quanto è stato fatto a questo proposito nei nostri cantieri. Da tempo ero in stretto contatto con il ‘Comitato Progetti Navi’ e con la “Direzione Generale Costruzioni Navali e Meccaniche (Maricost) della Marina” per la costruzione dei MAS da essi progettati e per i quali la nostra ditta era stata nominata capo commessa. Fui convocato da S.E. il Generale Pugliese, Presidente del Comitato, tramite il suo segretario, Cap. G.N. Spinelli e mi recai presso di loro il 29 febbraio 1936.
Fui incaricato di studiare la costruzione di un prototipo di piccolo motoscafo esplosivo con velocità quanto più alta possibile, che potesse essere sistemato e trasportato fra i due galleggianti dell’idrovolante ‘S 55’ e quindi con dimensioni di ingombro e di peso obbligate: lunghezza massima 6 mt; larghezza 1,60 mt; altezza massima 0,80 mt. Inoltre, il peso dell’imbarcazione poteva essere al massimo di 1.000 Kg. così suddivisi: scafo Kg. 350, motore Kg. 200, carica esplosiva Kg. 300, pilota, carburante, etc. Kg. 150.
Ricordo che al Comitato avevano preparato uno schizzo di massima con un gruppo propulsore normale nel quale, però, allo scopo di facilitare il trasporto dell’imbarcazione e del passaggio della medesima sopra gli sbarramenti portuali, era previsto di applicare all’asse dell’elica uno snodo, con il braccio porta asse rientrante nello scafo.
Avevo studiato e costruito da pochi mesi assieme all’ing. Guido Cattaneo il motoscafo da corsa ASSO RB che era stato dotato di una trasmissione a Z quella ora tanto in uso sulle imbarcazioni da diporto e più nota come trasmissione entrofuoribordo. Mi venne quindi l’idea di adottare per il barchino esplosivo questa trasmissione rendendola rotabile oltre che sull’asse verticale, anche trasversalmente, in modo di avere all’occorrenza il fondo dello scafo completamente libero. La trasmissione e la sua sistemazione vennero ovviamente studiate e realizzate dall’ing. Cattaneo.
Per quanto riguarda lo scafo pensammo di costruirlo, per contenere i pesi, in lamellare e con una carena a «redan» allora molto in voga nei motoscafi da corsa. Preparati i disegni, essi furono presentati al Comitato che li approvò con alcune piccole varianti e Uno dei primi esempi di MTM privo della copertura mette in evidenza la posizione del propulsore 6C 2500 e l’alloggiamento per la carica esplosiva.
(CONTINUA...)
L’ultimo ad essere prodotto prima dello scoppio del conflitto ed anche il primo che, faticosamente, ha rivisto la luce nel 1946 quando al Portello, fra macerie e molte incertezze si raccoglievano i frantumi per costruire l’Alfa Romeo del futuro. In realtà il passaggio sarebbe stato ben più significativo e la 6C 2500 avrebbe rappresentato presto il punto di rottura di un mondo, di un modo di concepire l’automobile europea che di lì a poco non sarebbe esistita più, schiacciata da quella produzione di massa, più economica e razionale che nello spazio di una notte avrebbe spazzato via il mondo dei carrozzieri, degli chassis, delle vetture fatte a mano, quasi sempre diverse l’una dall’altra.
Un’analisi corretta quella del “prima” e del “dopo” che però trascura il “durante”. Se da un punto di vista squisitamente automobilistico, gli anni del conflitto possono quasi essere considerati un periodo sabbatico – fatto salvo il mercato militare e l’effimero progetto della Coloniale – tutta l’attenzione dell’azienda é puntata sulla produzione più interessante per una nazione in guerra: mezzi pesanti e – soprattutto – motori aeronautici. È tuttavia in questa atmosfera che la “nostra” 6C 2500 trova il modo di ritagliarsi il suo piccolo angolo di celebrità che in un periodo di guerra non passa dalle piste o dalle passerelle dei concorsi di eleganza, ma dal mare.
L’idea era quella di costruire un piccolo e potente motoscafo capace di avvicinarsi moltissimo alle imbarcazioni nemiche, per colpirle con azioni rapide e decise, e per ottenere questo risultato non verranno lesinati gli sforzi. La base di partenza è un elegante motoscafo da turismo dei cantieri Baglietto, ed i propulsori sono quanto di meglio disponibile sul mercato: quegli Alfa Romeo 6C 2500 a doppio albero a camme in testa che equipaggiavano sportivissime spider corsa ed eleganti berlinette. Il moto, era quindi, trasmesso all’elica da una raffinata ed innovativa trasmissione appo-sitamente ideata dalla Isotta Fraschini. L’idea alla base di quelli che saranno gli MTM (Motoscafo Turismo Modificato), risale invero alla fine del 1935, quando Amedeo di Savoia-Aosta, il “Duca di ferro” lancia una proposta, subito raccolta dal fratello, l’Ammiraglio Aimone che si affretta a pianificare un assalto-tipo già l’anno successivo, unendo gli sforzi di Marina e Aeronautica. Operazione, quest’ultima, non del tutto indolore, come testimonia una lettera inviata dal Generale Giuseppe Valle, Capo di Stato Maggiore della Regia Aereonautica, indirizzata al Generale Amedeo Duca d’Aosta: “…visto che anche noi potremmo costruire come la Marina queste imbarcazioni d’assalto e che comunque dovremmo rischiare i nostri uomini e gli aerei per portare a termine le missioni, tanto vale che questo tipo di attacco si possa affidare a uomini dell’Aeronautica debitamente preparati, senza complicare le cose con la chiamata in causa della Marina e con la conseguente coda di piani, comunicazioni, coordinamenti, allenamenti e intese tra le entità distinte delle due nostre Forze Armate”.
Evidentemente i problemi si risolveranno velocemente tanto che nel 1936 viene pubblicato un primo “brogliaccio” del progetto di attacco a forze navali in porto con impiego di motoscafi d’assalto:
“Sei piccoli motoscafi monoposto leggeri e veloci (vel. max 40 Miglia circa all’ora) forniti di una carica esplosiva di tritolo di kg. 300 (testa di siluro) vengono sospesi a sei idrovolanti S. 55 (atlantici) sistemandoli tra gli scafi centrali. Una notte di calma, i sei idrovolanti trasportano i motoscafi nei pressi della base navale da attaccare, ammarando ad una distanza tale dalla costa di qualche decina di miglia, da escludere la possibilità di un preventivo allarme da parte della vigilanza nemica.
Messi a mare, sganciandoli dagli aerei, i sei motoscafi si dirigono verso la base nemica. Raggiunta l’imboccatura del porto, il capofila dirige a tutta forza contro l’ostruzione. A 50-100 metri da essa, il timoniere si butta in mare lasciando proseguire il motoscafo che esploderà all’urto contro l’ostruzione distruggendola localmente. I motoscafi seguenti, passano attraverso il varco così apertosi nell’ostruzione la cui ubicazione sarà resa manifesta da un segnale luminoso lasciato in mare dal primo motoscafo insieme col timoniere. In caso esistesse una seconda ostruzione, il secondo motoscafo ripete l’operazione distruttiva già fatta dal capofila sulla prima ostruzione. I motoscafi superstiti penetrati nel porto dirigono per investire le navi alla fonda. A 50-100 metri dal proprio bersaglio ogni timoniere si getta a mare, mentre il motoscafo prosegue, esplodendo all’urto contro la nave. Nulla vieta che l’operazione sia eseguita con un maggior numero di motoscafi (nove-dodici) ed anche ripetuta a breve intervallo non essendo facile predisporre in pochi giorni una difesa proibitiva”.
Una volta definita le teoria, il testimone passa quindi alla Baglietto di Varazze, costruttrice degli scafi, ed alla milanese CABI Cattaneo, la quale si occuperà dell’allestimento delle imbarcazioni, collaudate all’idroscalo, luogo ben più riservato del litorale ligure.
“Purtroppo non abbiamo più nell’archivio dei cantieri disegni e documenti riguardanti i mezzi d’assalto da noi costruiti perché dovemmo consegnarli all’Ufficio Tecnico della Marina Militare il 10 marzo del 1947 – dichiara Vincenzo V. Baglietto - posso comunque tentare di ricostruire, per quanto mi ricordo, quanto è stato fatto a questo proposito nei nostri cantieri. Da tempo ero in stretto contatto con il ‘Comitato Progetti Navi’ e con la “Direzione Generale Costruzioni Navali e Meccaniche (Maricost) della Marina” per la costruzione dei MAS da essi progettati e per i quali la nostra ditta era stata nominata capo commessa. Fui convocato da S.E. il Generale Pugliese, Presidente del Comitato, tramite il suo segretario, Cap. G.N. Spinelli e mi recai presso di loro il 29 febbraio 1936.
Fui incaricato di studiare la costruzione di un prototipo di piccolo motoscafo esplosivo con velocità quanto più alta possibile, che potesse essere sistemato e trasportato fra i due galleggianti dell’idrovolante ‘S 55’ e quindi con dimensioni di ingombro e di peso obbligate: lunghezza massima 6 mt; larghezza 1,60 mt; altezza massima 0,80 mt. Inoltre, il peso dell’imbarcazione poteva essere al massimo di 1.000 Kg. così suddivisi: scafo Kg. 350, motore Kg. 200, carica esplosiva Kg. 300, pilota, carburante, etc. Kg. 150.
Ricordo che al Comitato avevano preparato uno schizzo di massima con un gruppo propulsore normale nel quale, però, allo scopo di facilitare il trasporto dell’imbarcazione e del passaggio della medesima sopra gli sbarramenti portuali, era previsto di applicare all’asse dell’elica uno snodo, con il braccio porta asse rientrante nello scafo.
Avevo studiato e costruito da pochi mesi assieme all’ing. Guido Cattaneo il motoscafo da corsa ASSO RB che era stato dotato di una trasmissione a Z quella ora tanto in uso sulle imbarcazioni da diporto e più nota come trasmissione entrofuoribordo. Mi venne quindi l’idea di adottare per il barchino esplosivo questa trasmissione rendendola rotabile oltre che sull’asse verticale, anche trasversalmente, in modo di avere all’occorrenza il fondo dello scafo completamente libero. La trasmissione e la sua sistemazione vennero ovviamente studiate e realizzate dall’ing. Cattaneo.
Per quanto riguarda lo scafo pensammo di costruirlo, per contenere i pesi, in lamellare e con una carena a «redan» allora molto in voga nei motoscafi da corsa. Preparati i disegni, essi furono presentati al Comitato che li approvò con alcune piccole varianti e Uno dei primi esempi di MTM privo della copertura mette in evidenza la posizione del propulsore 6C 2500 e l’alloggiamento per la carica esplosiva.
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