"Il “Grifo”, l’Alfa Romeo 110... ed io" - Ricordi di un giornalista aeronautico
Dalla rivista il QUADRIFOGLIO
di Giuseppe D’Avanzo
La produzione aeronautica dell’Alfa Romeo, iniziata proprio con il “Biplano Santoni- Franchini”, nato nel 1911 partendo dal bel quattro cilindri in linea dell’A.L.F.A. 24 Hp, vive la sua epoca d’oro con la statalizzazione dell’azienda, con la sua militarizzazione del 1935, con la direzione di Ugo Gobbato e con la grande “corsa agli armamenti” che avrebbe preceduto la Seconda guerra mondiale. Al termine del conflitto, sappiamo della nascita dell’Alfa Romeo Avio, delle revisioni dei turboreattori e di qualche luccicante momento prima di questa trasformazione drastica: prima fra tutti l’impresa dell’Angelo dei Bimbi, il “Grifo” che per beneficienza attraverserà l’oceano e di cui molti diranno e scriveranno.
Quella riportata qui è invece una storia di quotidiana passione che permetterà di “estrarre” dalla leggenda e dalla grande storia il bel monoplano per raccontare un semplice volo di piacere, permettendo ai lettori di sedersi, almeno per una volta, su quel piccolo sedile nero, con la cloche, a portata di mano ed il potente motore Alfa Romeo poche decine di centimetri davanti agli occhi.
Dipinto di blu come tutti i velivoli dell’”Alica”- una società di lavoro aereo ora scomparsa- il S.A.I.S. 1001 “Grifo” immatricolato I-RANG si evidenziava fra la miscellanea di aeroplani che occupavano l’unico hangar intatto dell’aeroporto dell’Urbe. Era - se non vado errato - l’inverno 1949-’50 e sull’ex campo del Littorio dominavano ancora le rovine risultanti dal bombardamento del 19 luglio 1943.
Perché progettato da mio cucino Sergio Stefanutti e perché assurto a fama mondiale per aver trasvolato a finalità di beneficienza il Sud Atlantico pilotato da Maner Lualdi e Leonardo Bonzi, il “Grifo” aveva eccitato la mia curiosità inducendomi, appena tornato stabilmente a Roma, ad andarlo a vedere ed a sacrificare, per provarlo in volo, gran parte dei miei risparmi. L’Alica infatti lo metteva alla vertiginosa cifra di 14 mila lire all’ora di volo.
A confronto col Fairchild UC-61, col Parcival “Proctor”, con l’Austin “Autocrat”, surplus bellici, con gli FL-3, con i superstiti biplani “Caproncini” e con gli stessi “Macchi 308”, inconfondibilmente il “Grifo”, si differenziava per una linea affinata, moderna, quasi prepotente: ala bassa, corta e sottile, fusoliera arrotondata con sviluppo a sezioni ellittiche, sfinestratura aggressiva della cabina (per quattro persone), un insieme che, nonostante il carrello fisso carenato, poteva essere degno di un caccia della seconda guerra mondiale.
Carletto Morigi, il vecchio ed impareggiabile istruttore dell’”Alica”, aveva sfogliato rapidamente e con distacco il mio libretto di volo, impregnato di ore con robusti aeroplani americani, dotati di motori stellari d’esuberante potenza: “Mi dispiace, ma un paio di giri con me li devi fare, non ti posso mandare via subito da solo...”Ma perché”? I-RANG venne spinto fuori dall’hangar ed all’aperto mi sembrava proprio un parente un poco ingrassato dello “Spitfire”. Un motorista sollevò la cappottatura del motore lineare a cilindri invertiti, un blocco metallico pulito e lucidato sul quale i riflessi chiaro-lucidi prevalevano su quelli scuro-opachi. Mi evocò il fascino dei primi, costosi ed allora assai esclusivi orologi da polso svizzeri subacquei.
Ebbe ad essere l’intimo accostamento allo “Spitfire” a farmi dire involutamente: “Già, e questo sarebbe il ‘Merlin’!”. I tanti anni passati non hanno cancellato il ricordo delle battute che seguirono: “Che cosa?, qui merli non ce ne sono!”. Osservò caricato Morigi. “Ma no! Replicai prontamente, dicevo del motore, è lo stesso dello ‘Spitfire’...”.
Morigi, mosse il capo in espressione di sconforto: “Lo avevo detto che non puoi andare su solo con questo..., guarda qua!” e puntò l’indice sulla placchetta metallica nera e
argento applicata al motore, sulla quale, oltre ad Alfa Romeo “110-I”, si leggeva anche la potenza massima elargibile,130 CV, approssimativamente un decimo di quella del motore di alcuni “Spitfire”. Il che non mi garbò affatto allorquando con Morigi e con me a bordo presero posto sul divanetto posteriore due ragazzotti: “Sono tutto il giorno che aspettano di poter fare un voletto.” giustificò indulgente il Carletto. La perplessità suscitata in me dalla aerodinamica tanto assomigliante a quella dello “Spit” (ma con un decimo della potenza) e dalle quattro persone a bordo (lo “Spit” aveva il solo pilota) si andava trasformando in pavido sbigottimento anche per la constatazione che la manetta del gas era a destra (e non a sinistra come sui monomotori in tandem sui quali avevo precedentemente volato) e che la strumentazione, in misure decimali e non inglesi, era incredibilmente povera. Non c’era la radio. La messa in moto era fatta da terra da un motorista che eroicamente muoveva la grossa elica bipala a passo fisso.
I comandi del motore si riducevano alla sola manetta del gas: niente comando di pressione d’alimentazione, né del passo dell’elica; mi par di ricordare che non vi fosse neppure il “cicchetto” del carburatore e che il convogliamento dell’aria calda allo stesso carburatore fosse automatico. Gli strumenti del carburatore si riducevano al contagiri ed al termometro dell’olio lubrificante.
Del mio stato d’animo dovette accorgersi il Morigi, seduto alla mia destra, che, mentre il “110” con sommesso ritmo rallentato si scaldava, mi rassicurò. Ma a quale velocità si stacca? E chi autorizza decollo e atterraggio? “Non complicare le cose!: proprio in casi eccezionali la torre spara un razzo rosso, in decollo sta attento al piede ed evita di frenare, quando senti che spinge sotto il sedere lo tiri su, poi riduci a 2000, magari a 1900 giri. Se viri con i “flaps” fuori vieni giù come una pera cotta. Metti le due ruote a terra contemporaneamente, altrimenti può fare lo scherzo di infilzarsi a terra con l’estremità dell’ala”: tale compendiosa sintesi, in gergo ormai estintosi, del manuale operativo non vanificò i miei dubbi sull’I-RANG che, allineato più o meno verso Nord-Ovest (allora l’Urbe aveva piste d’erba delimitate da cinesini), venne definito da Morigi, rivolto a me come “tutto tuo!” Ed a questo punto ci fu la prima, gradevole sorpresa: spinta tutta avanti la manetta, il “110” esplose immediatamente la sua potenza in modo assordante spingendo in avanti I-RANG. Era una sensazione assai diversa da quella dell’ovattato, non nervoso, un poco ritardato nella risposta di potenza “wasp” del T-6.
Ma l’entusiasmo ebbe breve durata chè, alzata la coda e paratasi oltre il parabrezza l’intera visuale, l’argine del Tevere mi apparve tremendamente vicino. In assetto orizzontale il “Grifo” accelerava fortemente, ma rimaneva a terra come un ferro da stiro.
Istintivamente, guardai a destra in basso, ove sul T-6 v’era il comando carrello, dimenticandomi che sul “Grifo” non era retrattile: un’alternativa che sfumava! Doveva essere di disperazione lo sguardo lanciato al Carletto il quale, mentre imperterrito apriva un giornale, mi rispose con un classico: “Vai!, vai cosi!, che vai bene!”
Un istante prima del mio collasso, I-RANG a scalpitare rispondendo quindi immediatamente alla mia impercettibile pressione sulla cloche. Un sospiro, un’intima esplosione d’entusiasmo seguita da un’imprudente esibizionismo: mentre un rivoletto di sudore ghiacciato calava verso il mio fondo schiena, sollevai l’aereo di quanto bastava per compensare il prevedibile abbassamento a seguito della rotazione dei flaps, operazione che provocò la voluta, ulteriore accelerazione e quindi il raggiungimento della massima velocità - doveva essere attorno ai 240 Km l’ora - prima di “fare la barba” all’argine e quindi di cabrare bruscamente. Deluso, con la coda dell’occhio constatai che per la mia bravata Morigi non aveva neppure alzato gli occhi dal suo giornale.
Livellai e ridussi a 2000 giri che ero ad un paio di cento metri sopra Castel Giubileo. Era la prima volta che pilotavo un aeroplano italiano e la prima volta, ed una delle ultime, che con totale appagamento sentivo il divertimento del volo. Ho tenuto a conservare il ricordo di quell’inebriante esperienza senza contaminarla con riflessioni o considerazioni.
Mi sembrava di poter fare veramente quello che volevo senza dover guardare strumenti ed effettuare controlli, solo tenendo i piedi sulla pedaliera, impugnando cloche e manetta e sentendo il seggiolino...
Comando del passo dell’elica, pressione, “booster pump” ed altre benemerite innovazioni della tecnologia dei motori - avio furono da me evocate, durante quel volo, solo come fastidiose complicazioni. Una leggera pressione alla manetta e l’Alfa “110” faceva scattare in avanti ed alzare il muso all’aereo. Con manetta al minimo si potevano contare i giri dell’elica e sentire l’aria fischiare fra l’ala e la fusoliera...
di Giuseppe D’Avanzo
La produzione aeronautica dell’Alfa Romeo, iniziata proprio con il “Biplano Santoni- Franchini”, nato nel 1911 partendo dal bel quattro cilindri in linea dell’A.L.F.A. 24 Hp, vive la sua epoca d’oro con la statalizzazione dell’azienda, con la sua militarizzazione del 1935, con la direzione di Ugo Gobbato e con la grande “corsa agli armamenti” che avrebbe preceduto la Seconda guerra mondiale. Al termine del conflitto, sappiamo della nascita dell’Alfa Romeo Avio, delle revisioni dei turboreattori e di qualche luccicante momento prima di questa trasformazione drastica: prima fra tutti l’impresa dell’Angelo dei Bimbi, il “Grifo” che per beneficienza attraverserà l’oceano e di cui molti diranno e scriveranno.
Quella riportata qui è invece una storia di quotidiana passione che permetterà di “estrarre” dalla leggenda e dalla grande storia il bel monoplano per raccontare un semplice volo di piacere, permettendo ai lettori di sedersi, almeno per una volta, su quel piccolo sedile nero, con la cloche, a portata di mano ed il potente motore Alfa Romeo poche decine di centimetri davanti agli occhi.
Dipinto di blu come tutti i velivoli dell’”Alica”- una società di lavoro aereo ora scomparsa- il S.A.I.S. 1001 “Grifo” immatricolato I-RANG si evidenziava fra la miscellanea di aeroplani che occupavano l’unico hangar intatto dell’aeroporto dell’Urbe. Era - se non vado errato - l’inverno 1949-’50 e sull’ex campo del Littorio dominavano ancora le rovine risultanti dal bombardamento del 19 luglio 1943.
Perché progettato da mio cucino Sergio Stefanutti e perché assurto a fama mondiale per aver trasvolato a finalità di beneficienza il Sud Atlantico pilotato da Maner Lualdi e Leonardo Bonzi, il “Grifo” aveva eccitato la mia curiosità inducendomi, appena tornato stabilmente a Roma, ad andarlo a vedere ed a sacrificare, per provarlo in volo, gran parte dei miei risparmi. L’Alica infatti lo metteva alla vertiginosa cifra di 14 mila lire all’ora di volo.
A confronto col Fairchild UC-61, col Parcival “Proctor”, con l’Austin “Autocrat”, surplus bellici, con gli FL-3, con i superstiti biplani “Caproncini” e con gli stessi “Macchi 308”, inconfondibilmente il “Grifo”, si differenziava per una linea affinata, moderna, quasi prepotente: ala bassa, corta e sottile, fusoliera arrotondata con sviluppo a sezioni ellittiche, sfinestratura aggressiva della cabina (per quattro persone), un insieme che, nonostante il carrello fisso carenato, poteva essere degno di un caccia della seconda guerra mondiale.
Carletto Morigi, il vecchio ed impareggiabile istruttore dell’”Alica”, aveva sfogliato rapidamente e con distacco il mio libretto di volo, impregnato di ore con robusti aeroplani americani, dotati di motori stellari d’esuberante potenza: “Mi dispiace, ma un paio di giri con me li devi fare, non ti posso mandare via subito da solo...”Ma perché”? I-RANG venne spinto fuori dall’hangar ed all’aperto mi sembrava proprio un parente un poco ingrassato dello “Spitfire”. Un motorista sollevò la cappottatura del motore lineare a cilindri invertiti, un blocco metallico pulito e lucidato sul quale i riflessi chiaro-lucidi prevalevano su quelli scuro-opachi. Mi evocò il fascino dei primi, costosi ed allora assai esclusivi orologi da polso svizzeri subacquei.
Ebbe ad essere l’intimo accostamento allo “Spitfire” a farmi dire involutamente: “Già, e questo sarebbe il ‘Merlin’!”. I tanti anni passati non hanno cancellato il ricordo delle battute che seguirono: “Che cosa?, qui merli non ce ne sono!”. Osservò caricato Morigi. “Ma no! Replicai prontamente, dicevo del motore, è lo stesso dello ‘Spitfire’...”.
Morigi, mosse il capo in espressione di sconforto: “Lo avevo detto che non puoi andare su solo con questo..., guarda qua!” e puntò l’indice sulla placchetta metallica nera e
argento applicata al motore, sulla quale, oltre ad Alfa Romeo “110-I”, si leggeva anche la potenza massima elargibile,130 CV, approssimativamente un decimo di quella del motore di alcuni “Spitfire”. Il che non mi garbò affatto allorquando con Morigi e con me a bordo presero posto sul divanetto posteriore due ragazzotti: “Sono tutto il giorno che aspettano di poter fare un voletto.” giustificò indulgente il Carletto. La perplessità suscitata in me dalla aerodinamica tanto assomigliante a quella dello “Spit” (ma con un decimo della potenza) e dalle quattro persone a bordo (lo “Spit” aveva il solo pilota) si andava trasformando in pavido sbigottimento anche per la constatazione che la manetta del gas era a destra (e non a sinistra come sui monomotori in tandem sui quali avevo precedentemente volato) e che la strumentazione, in misure decimali e non inglesi, era incredibilmente povera. Non c’era la radio. La messa in moto era fatta da terra da un motorista che eroicamente muoveva la grossa elica bipala a passo fisso.
I comandi del motore si riducevano alla sola manetta del gas: niente comando di pressione d’alimentazione, né del passo dell’elica; mi par di ricordare che non vi fosse neppure il “cicchetto” del carburatore e che il convogliamento dell’aria calda allo stesso carburatore fosse automatico. Gli strumenti del carburatore si riducevano al contagiri ed al termometro dell’olio lubrificante.
Del mio stato d’animo dovette accorgersi il Morigi, seduto alla mia destra, che, mentre il “110” con sommesso ritmo rallentato si scaldava, mi rassicurò. Ma a quale velocità si stacca? E chi autorizza decollo e atterraggio? “Non complicare le cose!: proprio in casi eccezionali la torre spara un razzo rosso, in decollo sta attento al piede ed evita di frenare, quando senti che spinge sotto il sedere lo tiri su, poi riduci a 2000, magari a 1900 giri. Se viri con i “flaps” fuori vieni giù come una pera cotta. Metti le due ruote a terra contemporaneamente, altrimenti può fare lo scherzo di infilzarsi a terra con l’estremità dell’ala”: tale compendiosa sintesi, in gergo ormai estintosi, del manuale operativo non vanificò i miei dubbi sull’I-RANG che, allineato più o meno verso Nord-Ovest (allora l’Urbe aveva piste d’erba delimitate da cinesini), venne definito da Morigi, rivolto a me come “tutto tuo!” Ed a questo punto ci fu la prima, gradevole sorpresa: spinta tutta avanti la manetta, il “110” esplose immediatamente la sua potenza in modo assordante spingendo in avanti I-RANG. Era una sensazione assai diversa da quella dell’ovattato, non nervoso, un poco ritardato nella risposta di potenza “wasp” del T-6.
Ma l’entusiasmo ebbe breve durata chè, alzata la coda e paratasi oltre il parabrezza l’intera visuale, l’argine del Tevere mi apparve tremendamente vicino. In assetto orizzontale il “Grifo” accelerava fortemente, ma rimaneva a terra come un ferro da stiro.
Istintivamente, guardai a destra in basso, ove sul T-6 v’era il comando carrello, dimenticandomi che sul “Grifo” non era retrattile: un’alternativa che sfumava! Doveva essere di disperazione lo sguardo lanciato al Carletto il quale, mentre imperterrito apriva un giornale, mi rispose con un classico: “Vai!, vai cosi!, che vai bene!”
Un istante prima del mio collasso, I-RANG a scalpitare rispondendo quindi immediatamente alla mia impercettibile pressione sulla cloche. Un sospiro, un’intima esplosione d’entusiasmo seguita da un’imprudente esibizionismo: mentre un rivoletto di sudore ghiacciato calava verso il mio fondo schiena, sollevai l’aereo di quanto bastava per compensare il prevedibile abbassamento a seguito della rotazione dei flaps, operazione che provocò la voluta, ulteriore accelerazione e quindi il raggiungimento della massima velocità - doveva essere attorno ai 240 Km l’ora - prima di “fare la barba” all’argine e quindi di cabrare bruscamente. Deluso, con la coda dell’occhio constatai che per la mia bravata Morigi non aveva neppure alzato gli occhi dal suo giornale.
Livellai e ridussi a 2000 giri che ero ad un paio di cento metri sopra Castel Giubileo. Era la prima volta che pilotavo un aeroplano italiano e la prima volta, ed una delle ultime, che con totale appagamento sentivo il divertimento del volo. Ho tenuto a conservare il ricordo di quell’inebriante esperienza senza contaminarla con riflessioni o considerazioni.
Mi sembrava di poter fare veramente quello che volevo senza dover guardare strumenti ed effettuare controlli, solo tenendo i piedi sulla pedaliera, impugnando cloche e manetta e sentendo il seggiolino...
Comando del passo dell’elica, pressione, “booster pump” ed altre benemerite innovazioni della tecnologia dei motori - avio furono da me evocate, durante quel volo, solo come fastidiose complicazioni. Una leggera pressione alla manetta e l’Alfa “110” faceva scattare in avanti ed alzare il muso all’aereo. Con manetta al minimo si potevano contare i giri dell’elica e sentire l’aria fischiare fra l’ala e la fusoliera...