Quando il Portello rischiò di scomparire - di Lorenzo Ardizio - Dalla rivista IL QUADRIFOGLIO - Seconda puntata



Affievolito dalla distanza e ritmato come al solito dai battimenti ci perveniva il rombo dei motori e delle eliche. Si continuava a camminare, Orazio ed io, con l’occhio fisso a quella visione, stupiti e quasi increduli. Quella formazione compatta aveva attraversato in un paio d’ore nel sole tutta l’Europa: la caccia tedesca, evidentemente già decimata, non l’aveva disturbata. Potevano essere, in quel momento, nel cielo di Sesto San Giovanni. D’improvviso una piccola stella bianchissima brilla in mezzo alla formazione. Faccio partire il cronometro al polso. Dopo venti secondi si leva dal suolo là in fondo una grande nube giallastra: Quella stella luminosa era il segnale di sgancio; si potrebbe calcolare la quota della formazione.

Mentre passiamo davanti all’Ospizio dei Piccoli di Padre Beccaro giunge a noi il boato delle esplosioni. Dai locali dell’Ospizio gli orfanelli sono “sfollati” da parecchio; al loro posto ci sono ora gli uffici di progettazione dell’Alfa, rientrati a Milano dopo lo strano decentramento sul lago d’Orta. Appunto di impiegati dell’Alfa sono affollate le finestre dell’Ospizio che danno sulla strada: guardano tutti verso lo lontana nube gialla. Ci affacciamo anche noi poco dopo alle finestre sulla strada al quarto piano dello scalone. Però ora giù in strada la gente sta scappando da tutte le parti. Da quelle finestre il cielo appare sgombro. La spiegazione l’abbiamo subito alla finestra del pianerottolo verso Nord: alta su di noi nell’azzurro intenso del cielo punta diritta verso noi una perfetta formazione di argentei quadrimotori. È uno spettacolo. Quanti saranno? Ventiquattro? Quarantotto? Ma ecco che improvvisa appare in mezzo alla formazione la stella luminosissima. ‘Abbiamo venti secondi di tempo!’ grido. Divoriamo in discesa tutte le rampe e tutti i pianerottoli dello scalone: dietro a me Orazio; il signor Curtani ed altri tre o quattro.

Ho un attimo di incertezza nell’atrio al pianterreno: infilare le scale verso la cantina? Oltre la porta a vetri spalancata sul cortile c’è a pochi metri il piccolo bunker in cemento armato, vuoto con la sua porta aperta. In quella garitta da guardiano ci precipitia-mo accalcandoci l’uno sull’altro. Per tirarmi dietro la porta che è pesante, anch’essa di cemento armato, entro per ultimo. Siamo in troppi, in sei o sette; la porta non si chiude del tutto (qualche giorno dopo ricordo che Orazio si fece visitare: nella calca del bunker si era rotto una costola). Ventate rabbiose attraverso alla fessura ci dicono subito che fuori esplodono le bombe. Ad ogni ventata sembra che la porta voglia aprirsi ma subito si richiude costipandoci. Grazie alle pareti di cemento nel ricordo il rumore degli scoppi è quasi nullo. Dopo una manciata di secondi al buio e in quella scomodissima nostra posizione le ventate cessano. ‘Le squadriglie sono passate, usciamo!’ esclamo. Anche fuori ora c’è buio, per il polverone fitto e chissà quanto spesso che le bombe hanno sollevato sbriciolando muri e terreno. Nell’atrio dell’ospizio intravedo un gran buco nel pavimento e do l’allarme per quelli che sono dietro a me. ‘In quel buco ci son già cascato io’ dice qualcuno.

È monsignor Sodini, l’anziano direttore dell’orfanotrofio che all’Alfa è di casa perché l’ingegner Gobbato cede all’officina degli orfanelli le vecchie macchine utensili oramai obsolete. Sta venendo su dalla cantina, monsignor Sodini, aiutato da una suora. Nella caduta si è soltanto rotto un dito; ed ora avanza sostenendosi quella mano col dito rovesciato verso l’alto, come se portasse il Santissimo in processione. Cosa sarà successo ai nostri all’Alfa, nei nostri reparti? Di corsa rientriamo all’Alfa, riattraversiamo lo stabilimento, scansiamo le macerie, lungo quel percorso non scorgiamo vittime. Orazio sale su agli uffici di progettazione; nel reparto Esperienze fra i calcinacci trovo stralunato il signor Cassani.

Era rimasto tranquillo a lavorare; al piovere delle prime bombe era corso giù ad appiattirsi al muro in un angolo del sottopassaggio. In mezzo al reparto una bomba ha sollevato un piccolo tornio che ora contempliamo appollaiato su una capriata del tetto. Ci raggiunge l’unico operaio che, rimasto in reparto, dice che si è salvato ficcandosi sotto al grande piano di riscontro in ghisa. A questo punto la sirena del cessato allarme ci confortò. Pochi secondi dopo ulularono le sirene dell’allarme grave e ricominciarono a piovere le bombe: contro al muro in un angolo del sottopassaggio, abbracciati per farci coraggio, io, il signor Cassani e il signor Gazzotti (era il capo del vicino reparto radiatori) aspettammo che passasse questa seconda ondata.

Poi riprendemmo la perlustrazione. Nel cortile delle sale prova d’aviazione ci aveva preceduto l’ingegner Gobbato. Aveva capelli ed abiti coperti di polvere di calcinacci perché stava scendendo dallo scalone della Direzione quando la palazzina era stata colpita da una delle bombe della prima ondata. Ne aveva anche respirata molta di polvere: con l’acqua della vasca dei pesci cercava di fare i gargarismi. Poi pian piano cominciarono ad arrivare notizie sulle vittime trovate sotto alle macerie: nello stabilimento più di cinquanta. Il piccolo Sant’Antonio luminoso che l’ingegner Gobbato teneva in cima ad uno scaffale del suo ufficio doveva essere intervenuto dato che le bombe da 500 libbre cadute al Portello furono più di duecento! Ricordo il foro sul terreno accanto ad una delle torri-bunker di via Serra: la bomba era esplosa nel sotterraneo di accesso alla torre, affollato di ritardatari. Attraverso al foro della bomba le salme venivano portate sulla strada; e disposte attorno al foro come i petali di una grande margherita. La storia della bomba caduta sull’ospizio di Padre Beccaro l’appresi l’indomani da testimoni oculari.
(Continua...)

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