Quando il Portello rischiò di scomparire - di Lorenzo Ardizio - Dalla rivista IL QUADRIFOGLIO - ultima puntata



Quel mezzogiorno mentre io e Orazio salivamo le rampe dello scalone l’ingegner Pavesi, che era già sul pianerottolo dell’ultimo piano, approfittò di una scala a pioli lasciata lì dai muratori: assieme ad altri uscì da una botola sul terrazzo dell’edificio, per vedere ancora meglio. Ammirarono la formazione pensando fosse “di passaggio”; si chiesero cosa fosse la stella luminosa; si chiesero poi se fossero volantini propagandistici quegli oggetti che sfarfallavano luminosi sotto agli aerei.
Quando compresero che quelle erano bombe si affollarono alla botola. La bomba aprì un bel buco circolare sul terrazzo facendoli solo sobbalzare; poi bucò uno dopo l’altro tutti i pianerottoli dello scalone (che noi avevamo appena percorsi nella discesa precipitosa); al pianterreno lo bomba era quasi orizzontale e il buco nel pavimento fu delle dimensioni di una vasca da bagno. In quel buco appena fatto si infilò monsignor Sodini. Arrivato di corsa dalla strada aveva visto un’ombra scura scendergli davanti, non si era potuto fermare. In cantina si trovò a cavallo della bomba le cui lamiere nell’urto sull’impiantito si erano aperte: la balistite era sfarinata tutto attorno. Mi dissero che la sicurezza di quelle bombe veniva tolta durante la caduta dall’aria che faceva girare un’elichetta.
In quella bomba l’elichetta non girava bene. Qualcuno disse che era stata tenuta ferma dal ditino dell’angelo custode di uno degli orfanelli. Senza quel ditino la storia dell’Alfa sarebbe stata un po' diversa: nell’edificio colpito dalla bomba c’erano quasi tutti quei progettisti e disegnatori grazie ai quali nacquero poi la 1900, la Giulietta, la Giulia.

Purtroppo quel mattino funzionò bene l’elichetta di quella bomba (fra le tante sganciate dalla squadriglia da noi intravista nel cielo di Sesto) che cadde sulla scuola di Gorla e uccise quasi duecento bambini.”

Garcéa era un progettista, un dirigente e uno di quei personaggi che hanno “creato” l’Alfa Romeo che conosciamo. E la sua storia ha trovato spazio nelle cronache, nei libri, la sua voce è stata ascoltata e letta dagl appassionati. Ma quei tragici momenti sono stati tramandati dalle parole di centinaia di sopravvissuti, ognuno con una diversa esperienza: negli archivi è conservata la testimonianza “Memoria storica del giorno 20 ottobre 1944” di Mario Bortoluzzi: “A un certo punto sentii il sibilo delle bombe che precipitavano a terra e delle tremende esplosioni seguite da un violentissimo spostamento d’aria. La più vicina è esplosa a circa 25-30 metri; mi sono ritrovato letteralmente coperto di terra e sassi che mi hanno causato delle contusioni alla schiena. Ho visto delle fiammate nere-rosse-azzurrastre; l’aria era squassata dai boati delle esplosioni, sentivo la terra tremare sotto di me, volavano terra, sassi, schegge da tutte le parti, tremavo dalla paura; ricordo che in quel momento ho sussurrato queste testuali parole: ‘Mamma aiutami perché io qui muoio’ […] All’entrata in fabbrica, abbiamo incontrato il direttore generale dell’Alfa Romeo ingegnere Ugo Gobbato, il quale vedendoci col ferito (che insieme ad un collega stanno sorreggendo verso l’infermeria, n.d.a.) ci disse: ‘ma benedetti ragazzi, questi rifugi li abbiamo costruiti per voi, avete visto cosa succede’. E io, commosso, risposi: ‘Ha ragione direttore’”. Mario Bortoluzzi aveva 19 anni, e la storia non ha riportato altre notizie su di lui, come di molti altri operai. Anche Mirco Rigato, per esempio, era poco più di un ragazzino, durante la guerra.
Ma all’Alfa Romeo avrebbe dedicato tutta la vita e a quei bombardamenti legherà non solo i ricordi di morte, paura e distruzione, ma anche uno degli avvenimenti per lui più importanti. Rigato, finito il suo percorso lavorativo in Alfa Romeo, nel 1982 raggiunge l’età della pensione, ma deciderà comunque di collaborare con l’azienda: sarà uno dei pilastri del Gruppo Anziani Alfa Romeo (oggi Gruppo Seniores) e fra le più amate delle “guide” al Museo Storico. “Quando abbiamo sentito suonare l’allarme – racconta – siamo corsi dentro il bunker. C’erano delle specie di biciclette e pedalando facevamo girare i ventilatori per l’aria.

A un certo punto, vedo una ragazza. Aveva paura e allora mi sono offerto di accompagnarla a casa, a piedi, perche non funzionavano i mezzi dopo il bombardamento”. Mirko e Antonia sono stati sposati una vita intera. Si sono conosciuti in Alfa Romeo e per il Biscione hanno lavorato entrambi fino alla pensione. E ben oltre. La prima volta che l’ho incontrato in Museo cercava di trasmettere i segreti del “mestiere” a un ventunenne che la passione aveva spinto a non voler altro che far anche lui da guida in Museo; l’ultima volta è stato ancora in Museo, per lui molto più che una seconda casa, rammaricato dal fatto che le forze non gli permettessero più di salire e scendere i gradini per raccontare la “sua” Alfa.

Solo pochi mesi prima della sua scomparsa. Se i bombardamenti hanno lasciato cicatrici profonde e dolorose nella città, nell’azienda, nelle persone, mi ha sempre colpito questa sua storia – fra le decine che ci ha tramandato e raccontato – che ha visto nascere un grande sogno da uno dei momenti più bui, come una grande Alfa Romeo è rinata dalle macerie del Portello.
In più, il valore delle parole, dei ricordi di un appassionato, di un vero Alfista. E di un grande amico.

(fine)

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